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PROTESI D'ANCA MINIVASIVA

COXARTROSI E PROTESI: l'esperto risponde - TESTO DEL PROF. MASSIMILIANO NOSEDA

 

COXARTROSI E PROTESI D'ANCA MININVASIVA

 

Testo realizzato per la rivista DIAGNOSI E TERAPIA n 3 del settembre 2021 sul tema "COXARTROSI E PROTESI D'ANCA MININVASIVA" dal Prof Massimiliano Noseda, docente universitario, medico specialista in medicina fisica e riabilitazione, specialista in igiene e medicina preventiva, consulente di centri medici e strutture riabilitative.

 

Si precisa che il seguente testo ha una finalità puramante divulgativa e non è sostitutivo di una visita specialistica, unica procedura in grado di confermare la diagnosi e di valutare il trattamento riabilitativo più adatto al caso specifico. 

 

Essendo l’artrosi una patologia cronico degenerativa, è importante premettere e puntualizzare che il suo trattamento non potrà avere in nessun caso come obiettivo la restituito ad integrum e la risoluzione definitiva del quadro clinico come avviene invece per molte malattie di altra natura, quali ad esempio le patologie esantematiche del bambino, che nella stragrande maggioranza dei casi, se curate tempestivamente e opportunamente, non lasciano sequele di alcun tipo e soprattutto non ricompaiono nel tempo. Questa premessa è fondamentale non solo per comprendere la logica di trattamento ma anche per non generare false illusioni nel paziente o indurlo a pensare erroneamente di essere stato mal curato. Inoltre, proprio per la natura cronica e lentamente progressiva dell’artrosi, la gestione del quadro clinico richiederà un impegno attivo e soprattutto quotidiano del paziente che è bene stimolare fin dal principio.

 

 

Principi per il trattamento conservativo

Innanzitutto, è opportuno valutare accuratamente gli stili di vita del soggetto con artrosi in modo da una parte di evitare le situazioni che stressano inutilmente le articolazioni già sofferenti e dall’altra di promuovere le attività che ne favoriscono invece un uso appropriato. A tal proposito vale la pena  ricordare inoltre che il dolore è un campanello d’allarme naturale che è bene saper ascoltare e che indica spontaneamente al soggetto cosa è meglio fare e cosa è preferibile evitare.

Nel soggetto artrosico tale sintomo è normalmente lamentato a livello inguinale e solo più raramente riferito a livello gluteo o irradiato al ginocchio. Nelle fasi iniziali della patologia, il dolore tipicamente scompare o si attenua sia con il riposo, sia con l’acquisizione della postura sdraiata, per ripresentarsi puntualmente con la ripresa del carico, soprattutto ai primi passi e dopo cammino prolungato. Nelle fasi più avanzate, invece, tale sintomo tende a diventare continuo, ad essere più sordo sia allo scarico sia alle terapie analgesiche e soprattutto ad associarsi ad una zoppia di fuga sempre più evidente, dovuta inizialmente solo all’ipostenia muscolare ma in seguito anche all’accorciamento dell’arto conseguente alla deformazione progressiva della testa femorale. Pertanto, si dovranno considerare ad esempio la necessità d’uso di un bastone per scaricare l’arto inferiore durante la deambulazione o il possibile beneficio derivato dal calo ponderale da proporre sempre nei soggetti in sovrappeso. Per i pazienti poco motivati o con molti chili di troppo potrà essere consigliata una visita specialistica presso un dietologo al fine di inquadrare meglio l’entità del dimagrimento necessario, personalizzare il regime alimentare da adottare e soprattutto monitorare oggettivamente i risultati conseguiti nel tempo. Alla riduzione dell’introito alimentare bisognerà però associare anche l’incremento dell’attività motoria che magari il soggetto proprio a causa dell’artrosi ha ridotto ulteriormente negli ultimi periodi. Per gli sportivi alcune attività che prevedono salti o frequenti cambi di direzione, come la pallavolo, il calcio, il basket, le arti marziali o il ballo, sono da limitare nelle fasi iniziali della patologia e preferibilmente da evitare in quelle più avanzate. Potranno essere, invece, sostituite dal cammino secondo tolleranza individuale con scarpe comode, dal nuoto, meglio se a dorso o a stile libero, o dalla bicicletta, preferibilmente praticata con un sellino tendenzialmente alto per limitare il più possibile la flessione d’anca durante la pedalata.

Ad una proposta di movimento aspecifica deve tuttavia essere associato un lavoro più specifico di riabilitazione, personalizzato alle problematiche del particolare paziente sia per tipologia sia per intensità. Questo potrà prevedere esercizi motori di ginnastica attivi volti a rinforzare la muscolatura eventualmente deficitaria, recuperare l’articolarità se ridotta grazie anche allo stretching, ottimizzare la postura in condizioni sia statiche che dinamiche, migliorare l’equilibrio se precario e rendere il passo più propulsivo e armonico. Ovviamente la già citata natura cronico degenerativa dell’artrosi impone che il fisioterapista insegni tali esercizi e che il paziente provveda poi ad effettuarli anche in autonomia con costanza quotidiana in modo non solo da conseguire pienamente gli obiettivi previsti ma anche da mantenere i risultati raggiunti nel tempo. Previa verifica dell’assenza di alcune controindicazioni, nelle sedute di fisioterapia in studio potranno essere associate anche alcune terapie fisiche che sfruttano principi differenti come ad esempio il caldo, il freddo, i campi elettrici o quelli magnetici.

La natura algica della patologia richiede invece spesso anche il contemporaneo utilizzo di alcuni farmaci per gestire al meglio il sintomo dolore. Alcuni, come il paracetamolo, vengono sfruttati per il loro effetto analgesico e sono somministrabili anche in pazienti che assumono anticoaugulanti orali. Nei casi associati a infiammazione articolare è possibile anche usare gli antinfiammatori, classici o di nuova generazione, come etoricoxib o celecoxib, inibitori selettivi della seconda isoforma dell’enzima ciclossigenasi. Tali farmaci vanno assunti sempre sotto parere medico, non solo per scegliere il principio attivo più utile al caso specifico, ma anche per individuare il dosaggio ottimale e la durata del trattamento oltre che per escludere l’interazione negativa con altri farmaci già assunti dal paziente o per valutare opportunamente l’incompatibilità con altre patologie in essere. Infine, sono prescrivibili anche i derivati degli oppioidi, come ad esempio il tramadolo, da valutare tuttavia attentamente anche per i possibili effetti collaterali come la stitichezza o la sonnolenza.

Oltre ai farmaci è bene poi considerare l’assunzione periodica di alcuni integratori. Questi contengono solitamente un mix di diverse sostanze con funzioni differenti ma tutte volte a stimolare e ottimizzare il naturale processo di rinnovamento e riparazione delle strutture articolari. Ad esempio glucosamina, condroitin solfato e collagene di tipo II sono sostanze che contribuiscono alla sintesi ed al mantenimento degli elementi costitutivi della cartilagine; rame, zinco, zolfo e selenio sono minerali utili nel normale metabolismo cellulare delle cellule del tessuto connettivale, cartilagineo e osseo. In alcuni preparati sono poi presenti estratti di boswellia, un arbusto indiano utilizzato fin dall’antichità per le sue proprietà analgesiche e antinfiammatorie, così come curcuminoidi e vitamina C, entrambi dotati di un’importante azione antiossidante. Le componenti naturali di molti di questi integratori e la possibilità di acquistarli senza obbligo di ricetta non devono far sottovalutate al paziente i possibili rischi legati alla loro assunzione. A puro scopo esemplificativo ricordiamo che la glucosamina viene solitamente estratta dai crostacei e pertanto non deve essere assunta nei soggetti con allergie note verso questa categoria alimentare. Inoltre, la stessa può scatenare crisi asmatiche e pertanto deve essere evitata nei soggetti con anamnesi positiva per questa patologia così come può alterare negativamente il profilo lipidico in soggetti patologie cardiovascolari, richiedere una modifica del dosaggio di insulina nei pazienti diabetici e aumentare il livello di INR nei soggetti in terapia con anticoagulanti a base di cumarina come warfarin e acenocumarolo. Particolare attenzione va, quindi, posta sia nell’indicazione sia nel monitoraggio di alcune particolari categorie di pazienti. Alcuni integratori contengono, poi, zuccheri, sotto varie forme di cui è bene tener conto, e zolfo, da assumere sempre a stomaco pieno al fine di prevenire ed evitare indesiderati dolori gastrici. Per tutti questi motivi, e quindi per evitare che il possibile danno conseguente all’assunzione sia superiore al beneficio atteso, è sconsigliato il fai da te o il passaparola in questo ambito mentre è opportuno discutere sempre con lo specialista eventuale tipologia, dosaggio, durata e reale necessità di integrazione.

Prima di giungere all’intervento di protesizzazione è infine possibile considerare l’infiltrazione, ovvero il deposito di una sostanza direttamente all’interno dell’articolazione mediante l’uso di una siringa. Diversi sono a tal proposito i prodotti in commercio iniettabili. Tra questi i più usati sono l’acido ialuronico, che tende a lubrificare l’articolazione cercando di agevolare lo scorrimento delle superfici articolari alterate dal processo patologico; il cortisone che, nonostante il suo buon effetto antinfiammatorio in grado di mimare le difese naturali dell’organismo, dovrebbe essere usato con parsimonia e per un numero limitato di volte, tipo 3 o 4 al massimo, per il possibile danno alle strutture articolari come effetto collaterale conseguente all’uso ripetuto e al dosaggio superiore alla produzione fisiologica; le cellule mesenchimali, che vengono prelevate dall’addome stesso del paziente attraverso una tecnica simile alla liposuzione, preparate tramite centrifugazione e reiniettate nell’articolazione da trattare del paziente stesso eliminando in tal modo problemi di intolleranza individuale o rigetto.

 

 

Principi per il trattamento chirurgico

Contrariamente a quanto si pensa solitamente, non è tanto, o solo, la compromissione del quadro radiologico a rendere appropriata l’indicazione al trattamento chirurgico. Non è, infatti, così raro osservare immagini poco compromesse ma associate a un’importante sintomatologia dolorosa o al contrario radiogrammi molto compromessi ma in pazienti paucisintomatici. Per esprimere un giudizio sereno e professionale sono da considerare infatti anche altri importanti elementi come ad esempio la mancanza di beneficio alle diverse cure conservative possibili e la reale limitazione del quadro clinico sulle attività della vita quotidiana, sportiva o lavorativa. Inoltre, un buon intervento di protesizzazione non inizia in sala operatoria ma richiede al contrario un’accurata valutazione preoperatoria che non può prescindere dalle caratteristiche anatomiche, dalle aspettative funzionali del paziente e dal suo profilo di salute generale, oltre che dalla sua adesione e partecipazione al percorso terapeutico. A seconda, infatti, del particolare caso da trattare risulta essere fondamentale in fase di programmazione dell’intervento la scelta da parte dell’ortopedico del particolare tipo di protesi che deve considerare aspetti antropometrici come le dimensioni ossee del soggetto da operare, ovvero se è un bambino o un adulto, un uomo o una donna, e aspetti più tecnici legati alla particolare conformazione dell’anca che vogliamo ricostruire. Ciascuna protesi è, infatti, costituita da più componenti. Più precisamente lo stelo è la parte inferiore allungata che si impianta nel femore mentre la coppa è la parte superiore che si posiziona all’interno della cavità cotiloidea del bacino. La testa è invece la porzione centrale sferica che consente al soggetto di muovere l’articolazione dell’anca attraverso il suo posizionamento nel neocotile che può essere diretto o mediato da un ulteriore inserto in polietilene che a sua volta ottimizza la congruenza e lo scorrimento tra le due superfici. E’ detto infine colletto il raccordo metallico tra lo stelo e la testa. Poichè le protesi sono oggigiorno modulabili, risulta fondamentale l’esperienza del chirurgo nella scelta accurata e ragionata di ciascun componente. Ad esempio lo stelo dovrà garantire stabilità dell’impianto nel femore ma dovrà essere relativamente corto al fine di rimuovere durante l’intervento la minima quantità di osso possibile anche in previsione di future possibili revisioni. E’ spesso rivestito da idrossiapatite, un materiale poroso che ottimizza la fusione tra la protesi e l’osso stesso del paziente consentendo a quest’ultimo di proliferare all’interno delle sue microcavità. Da considerare è anche la necessità di utilizzare una sorta di collante, detto genericamente cemento, per migliorare l’adesione dello stelo al femore. Quest’ultimo viene utilizzato però di norma solo in soggetti molto anziani, che spesso hanno un osso molto osteoporotico e un’improbabile necessità di revisione futura. La cementazione presenta infatti il grande vantaggio di consentire un carico immediato al paziente, riducendo in tal modo la durata e i rischi conseguenti all’allettamento e facilitando il percorso riabilitativo, ma necessita di pulizie chirurgiche più demolitive in caso di revisione, ovvero di reintervento. Per tale motivo non si propone di norma al soggetto relativamente giovane. A seconda poi della particolare conformazione femorale del paziente esistono steli rettilinei e steli più o meno curvi in modo da poter garantire una ricostruzione anatomica il più simile a quella fisiologica senza alterare così eccessivamente la postura naturale del paziente. Un discorso simile si può fare per i colletti che hanno lunghezza, spessore e curvature differenti al fine di ottimizzare la centratura della testa protesica nel neocotile. Da scegliere è infine anche il materiale di cui è costituita la protesi soprattutto per ciò che riguarda le superfici di scivolamento al fine di garantire un movimento fluido e prevenire l’usura nel tempo. Solitamente i materiali più usati a tal proposito sono la ceramica e le leghe metalliche.

I registri operatori ci confermano che quella della protesizzazione d’anca è oggi una procedura chirurgica affidabile, sebbene non del tutto esente da complicanze, che tendono comunque a essere meno frequenti e meglio gestite rispetto al passato. La durata media di sopravvivenza dell’impianto è di oltre 20 anni e il ricorso alla chirurgia si propone obiettivi multipli come la riduzione del dolore articolare, l’aumento del range di movimento e il miglioramento della qualità della vita. Sebbene, come ampiamente illustrato, nel processo di personalizzazione dell’intervento sia possibile la scelta di una vasta gamma di componenti protesici, oltre ad essere possibili differenti accessi chirurgici come l’anteriore, il laterale e il posteriore, la tecnica che attualmente si vede sempre più frequentemente proporre nella chirurgia protesica d’anca è quella detta AMIS ( anterior minimally invasive surgery ), ovvero un approccio mininvasivo con accesso anteriore. Il dispositivo utilizzato in questi casi presenta uno stelo corto e tozzo, spesso rivestito di idrossiapatite, che consente durante il suo impianto una modesta asportazione di tessuto osseo dal femore del paziente senza compromettere per questo la stabilità e la sicurezza della protesi. L’accesso anteriore, rispetto al laterale, evita il taglio e la disinserzione delle strutture muscolari abduttorie d’anca comportando una riduzione non solo del dolore postoperatorio ma anche dei tempi di ospedalizzazione e di quelli necessari al recupero funzionale. Ciò limita, inoltre, l’entità del sanguinamento operatorio riducendo il rischio di anemizzazione e rendendo possibile l’intervento anche su entrambe le anche in un’unica seduta operatoria, se necessario. La nuova tecnica permette, poi, di diminuire sensibilmente anche il rischio di altre possibili complicanze come ad esempio la lussazione. Da ultimo, ma spesso non meno importate per il paziente, questa proposta chirurgica consente al chirurgo di effettuare un’incisione cutanea più breve lasciando, quindi, come esito una cicatrice relativamente piccola di circa una decina di centimetri.