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PUBALGIA L'ESPERTO RISPONDE

PUBALGIA: l'esperto risponde - TESTO DEL PROF. MASSIMILIANO NOSEDA

 

PUBALGIA

 

Testo realizzato per la rivista DIAGNOSI E TERAPIA n 10 del dicembre 2018 sul tema "PUBALGIA" dal Prof Massimiliano Noseda, docente universitario, medico specialista in medicina fisica e riabilitazione, specialista in igiene e medicina preventiva, e consulente di centri medici, strutture riabilitative, palestre e centri sportivi.

 

Si precisa che il seguente testo ha una finalità puramante divulgativa e non è sostitutivo di una visita specialistica, unica procedura in grado di confermare la diagnosi e di valutare il trattamento riabilitativo più adatto al caso specifico.

 

Di che cosa si tratta

Con il termine pubalgia si indica in modo generico un quadro doloroso localizzato a livello della zona pubica, dell’inguine o dell’interno coscia che, come tale, necessita di uno specifico inquadramento medico volto sia a risalire alla causa scatenante sia ad impostare un trattamento mirato ed efficace. Diverse sono, infatti, le condizioni e le patologie che possono manifestarsi con un dolore nell’area addomino-pubo-crurale. Tra queste troviamo più frequentemente la patologia da sovraccarico dovuta a ripetuti microtraumi, tipici di alcune attività sportive che sollecitano in particolar modo gli arti inferiori come il calcio, la scherma, il ballo, il rugby o il tennis. Dovuti almeno in parte a mancanza di riscaldamento, preparazione fisica assente o inadeguata, gesto sportivo non eseguito correttamente, errata programmazione dei tempi di recupero, attrezzatura o superfici di gioco non ottimali, tali stimoli biomeccanici causano ipersollecitazioni a carico della muscolatura prossimale degli arti inferiori e in particolare a livello del tendine dell’adduttore che deve ad esempio ammortizzare i salti o gli arresti improvvisi, adattarsi a rapidi cambi di direzione tipici del dreebling o resistere alla forza esplosiva caratteristica della calciata. Possibile sia nell’atleta amatoriale sia in quello d’elite, la sindrome retto-adduttoria risulta di più facile riscontro in tutte le casistiche comparative nel genere maschile. Nei casi più lievi e iniziali il paziente lamenta un fastidio al risveglio mattutino o all’inizio della pratica sportiva che spesso si attenua spontaneamente fino a scomparire dopo il riscaldamento mentre in quelli più gravi il dolore persiste al termine dell’allenamento o aumenta progressivamente durante l’attività sportiva fino a compromettere la performance e costringere il soggetto alla sospensione. In tali situazioni la deambulazione è spesso difficoltosa con possibile comparsa di zoppia, il sonno notturno viene disturbato e lo svolgimento delle attività quotidiane e lavorative può essere temporaneamente impedito. Più raro, ma comunque possibile, è poi il coinvolgimento, alternativo o simultaneo al tendine dell’adduttore, anche della guina del retto femorale con associata irritazione del nervo perforante superficiale.

Il quadro algico della sindrome retto-adduttoria può, inoltre, essere determinato o aggravato anche da problematiche posturali come alterazioni dell’appoggio plantare, dismetria del bacino o degli arti inferiori, alterazioni delle curve fisiologiche del rachide come la scoliosi o l’iperlordosi lombare, esiti di pregressi interventi chirurgici addominali, di malattie ossee congenite, traumatiche o degenerative. A quest’ultimo proposito un’osteoartropatia pubica è possibile e spesso associata ai casi di tendinopatia muscoloscheletrica cronica o recidivante.

Un caso particolare di pubalgia è, infine, quello della sindrome di Lacomme, ovvero della donna incinta. Si verifica tipicamente dopo il VI mese di gravidanza conseguentemente alla diastasi della sinfisi pubica dovuta sia alle modifiche delle strutture anatomiche in preparazione al parto, ovvero all’aumento della lordosi lombare, all’antiversione del bacino e alla nutazione del sacro, sia alle modifiche ormonali gestazionali come la produzione di relaxina che conferisce maggior elasticità, e quindi minor resistenza, alle strutture fibrose articolari e periarticolari.

 

Anamnesi, esame obiettivo e diagnostica

Vista l’abbondanza di strutture presenti nell’area addomino-pubo-crurale la diagnosi differenziale deve considerare l’assenza di ernie inguinali, di linfoadenopatie o di patologie dell’articolazione coxofemorale, come artrosi o artrite reumatoide, o del testicolo come la torsione dello stesso. Nei casi dubbi potrebbe essere necessario richiedere alcune consulenze specialistiche ad hoc e quindi interpellare il neurologo, il chirurgo addominale, l’urologo o il ginecologo per l’inquadramento e la terapia delle patologie di loro competenza.

Nel caso, invece, di sindrome retto-adduttoria la diagnosi è relativamente semplice e spesso una buona anamnesi, in grado di indagare tutte le cause e i fattori di rischio precedentemente descritti, e un esame obiettivo accurato sono sufficienti a fugare ogni altro dubbio clinico. Essendo, infatti, il tendine dell’adduttore molto superficiale, si tratta di una struttura anatomica facilmente identificabile alla palpazione manuale che evoca dolore in caso di infiammazione, stiramento o strappo. Anche i test muscolari contro resistenza e in allungamento sono in grado di riacutizzare la sintomatologia lamentata dal paziente.

In caso di dubbio o anche per semplice conferma diagnostica l’esame più opportuno ed economico da richiedere è l’ecografia che consente di valutare direttamente il tendine e, quindi, l’eventuale presenza di flogosi e versamento, ematoma in caso di lacerazioni, zone di metaplasia condrale o calcifica, fibrosi o brecce nel tessuto muscolare. L’indagine dovrebbe essere eseguita, oltre che bilateralmente per la possibile presenza di artefatti, anche in condizioni statiche e dinamiche, e ripetuta nel tempo per seguire l’evoluzione del quadro clinico e la risposta alle cure intraprese. L’esame radiografico del bacino in carico può invece essere utile non solo per meglio quantificare eventuali dismetrie degli arti inferiori ma anche per valutare la sinfisi pubica e le articolazioni coxofermorali e, quindi, ricercare per esempio eventuali fenomeni artrosici o la presenza di microcalcificazioni.

 

Principi di trattamento

In caso di sindrome retto-adduttoria la proposta terapeutica varia da caso a caso sulla base di molti fattori quali ad esempio il tempo di insorgenza del quadro clinico, la sua intensità, l’eventuale limitazione nelle attività quotidiane, sportive e lavorative, lo stato dei tendini, le problematiche posturali del soggetto, eventuali patologie sistemiche o osteoarticolari simultaneamente presenti. Il primo approccio prevede classicamente il riposo, la crioterapia locale intermittente e l’uso di FANS topici o per bocca. Nei casi di non immediata risoluzione possono essere intrapresi cicli di terapie fisiche come ultrasuoni, laser, TECAR e onde d’urto. In ogni caso è sempre bene associare tali cure ad un personalizzato percorso di chinesiterapia attiva che a seconda dei casi potrà prevedere esercizi di rinforzo muscolare degli addominali laterali, di allungamento degli adduttori, di rieducazione posturale con metodiche tipo Souchard o Mezieres, di rieducazione propriocettiva in appoggio sia mono che bipodalico e di riprogrammazione neuromotoria di schemi semplici e complessi. Parte di questi esercizi dovrebbe essere introdotta, poi, anche nella preparazione atletica quotidiana del soggetto ed eseguita a scopo preventivo in totale autonomia. Infine, nella fase di ripresa sportiva particolare attenzione deve essere posta non solo alla scelta delle calzature e delle superfici di gioco ma anche alla cura del gesto sportivo specifico al fine di eliminare compensi muscolari indesiderati e ridurre così il rischio di recidiva. Solette sportive o rialzi nelle calzature devono essere, inoltre, utilizzati da tutti quei soggetti che presentano problemi di appoggio plantare o dismetrie degli arti inferiori maggiori di un centimetro. Infine, la terapia infiltrativa locale cortisonica può essere effettuata in caso di risultato parziale del trattamento qui descritto per non più di 2 o 3 volte al fine di evitare possibili danni iatrogeni sui tessuti molli.

L’approccio chirurgico è invece abbastanza raro e riservato ai casi in cui il trattamento conservativo non ha dato risultati accettabili, anche se protratto e ripetuto per 6 mesi, oppure quando la recidiva è costante alla ripresa dell’attività sportiva o lavorativa che risulta essere difficoltosa o inficiata dal quadro algico. Consiste nell’esecuzione di microperforazioni e scarificazioni direttamente all’inserzione tendinea allo scopo di richiamare maggior afflusso sanguigno ed attivare, attraverso l’infiammazione indotta, i processi naturali di riparazione e rigenerazione tissutale. In tal caso l’atleta dovrà necessariamente sospendere l’attività sportiva per un periodo di 2- 3 mesi ed essere sottoposto a un percorso di riabilitazione prima di poter riprendere la pratica della propria disciplina.